Cinque professioniste, cinque biografie da raccontare contro ogni forma di pregiudizio e stereotipo di genere. Ieri, venerdì 25 novembre, all'Auditorium dell'Istituto comprensivo di Urgnano, in occasione della Giornata mondiale per l'eliminazione della violenza contro le donne i ragazzi di terza media hanno dialogato con la regista teatrale Silvia Barbieri, l'arbitre avvocata Carlotta Filippi l'architetta e ingegnere Francesca Malgorani, la dottoressa medico chirurgo specialista in pediatria Beatrice Pietrobon e la commissaria di Polizia locale di Cologno Monica Tresca. La piaga della violenza contro le donne si combatte in primo luogo con la cultura: non basta incarcerare chi se ne macchia, è necessario andare alla radice del problema, la prevaricazione di un sesso sull'altro nasce e si alimenta con la mancanza di rispetto, il pregiudizio, lo stereotipo, l'accettazione di ruoli che impongono alla donna una posizione subordinata nella società. Ecco allora la presiona iniziativa dell'Istituto comprensivo guidato dalla dirigente Valeria Cattaneo, che ha messo a tu per tu cinque donne che hanno conquistato i vertici di professioni tradizionalmente maschili.
Barbieri
Silvia, attrice, regista e drammaturga teatrale
3B
58
anni, racconta di essere soddisfatta della sua vita e della sua carriera, cosa
che ha compreso appieno durante un periodo di cattiva salute risolto di
recente.
La famiglia, soprattutto suo padre, la
spingeva verso una carriera da insegnante. Lei, tuttavia, desiderava fare
l’attrice a livello professionale. Iniziò a recitare in spettacoli teatrali per
bambini e ragazzi. Il padre continuava a spingerla verso l’insegnamento,
volendo che il teatro si trasformasse in un semplice hobby.
Quando
nacque il Teatro Prova di Bergamo, Silvia vi si unì. Iniziò allora a scrivere e
dirigere lavori teatrali per bambini e ragazzi, collaborando anche con
programmi televisivi trasmessi da Rai Jojo, quali L’Albero Azzurro di
Oreste Castagna.
Fondamentale, nella sua esperienza
professionale, l’incontro con Elio de Capitani, regista del Teatro dell’Elfo di
Milano. Durante la sua carriera, non ha mai subito discriminazioni di genere,
pur avendo assistito a tali atti, in alcune occasioni. L’atteggiamento di suo
padre – mancato un anno fa – , uomo dai valori tradizionali, nei confronti del
teatro, l’ha sempre resa molto competitiva con il genere maschile, seppur in
maniera totalmente positiva, portandola anche a svolgere lavori manuali e di
fatica per mostrare che anche una donna può eseguirli. Ritiene che non si debba
negare un consiglio famigliare per pura opposizione, ma, piuttosto, negarlo
avendo coscienza che altra è la via da percorrere. Tale strada può essere
faticosa, piena di rischi e sicuramente richiede studio, impegno, pazienza e
dedizione, ma, per Silvia, ciò che conta veramente è avere al proprio fianco,
lungo il percorso professionale e della vita, persone buone e pronte a
sorreggere nelle cadute.
Per
tutelare maggiormente le donne, secondo Silvia, è necessario che la comunità si
faccia carico delle problematiche esistenti nei singoli nuclei famigliari,
portando testimonianza, laddove necessario, per aiutare donne vittime di
vessazioni e violenze, siano esse fisiche o verbali. I più deboli dovrebbero
essere sempre tutelati da chi li circonda.
La sua più grande soddisfazione
professionale è la gioia degli spettatori, e degli attori, una volta conclusosi
uno spettacolo. Pur avendo vinto premi e ricevuto riconoscimenti, Silvia crede
che nulla possa eguagliare la felicità liberatoria derivante dall’espressività
del teatro. Per questo, consiglia a tutti di esprimersi tramite questa forma
d’arte. Lavorando a fianco dei più fragili (in carcere, coi bambini, ecc.)
Silvia si è resa conto del bisogno profondamente umano di potersi rappresentare
a teatro, indipendentemente dall’essere attrici o attori professionisti.
La
carriera non le ha in alcun modo impedito di costruire una famiglia.
Il
suo motto è: forza e capacità di credere in se stessi. Le parole chiave del suo
percorso: coraggio e indignazione (verso l’indifferenza per atti violenti).
Filippi
Carlotta, avvocato e arbitra di calcio
3C
Carlotta,
34 anni, non si interessa tanto alle minuzie lessicali, quanto alla vera e
profonda natura della disparità di genere, passi essa o meno attraverso
l’attribuzione di un mestiere al maschile o al femminile sotto il profilo
linguistico. Le sue aspirazioni sono nate in maniera indipendente, essendo
cresciuta lontano dalla città, in un contesto tradizionale quale quello delle
valli orobiche. La passione per il rispetto delle regole l’ha spinta a
intraprendere due carriere accomunate da esse. Tuttavia, grande è la differenza
che le distingue sotto il profilo del rispetto personale. Infatti, il suo ruolo
di avvocato viene riconosciuto e stimato, mentre, soprattutto a livello di
partite provinciali o regionali, il suo ruolo di arbitra è spesso oggetto di
ingiurie da parte degli spettatori. Alcuni non accettano che una donna prenda
decisioni. Come avvocato, ha difeso arbitre ingiuriate e talvolta vittime di
aggressioni fisiche da parte dei tifosi. Nel corso della sua vita ha giocato a
calcio ad alti livelli, vincendo campionati con Atalanta e Brescia, militando
in nazionale e, nel giugno 2010, conquistando una supercoppa. Tuttavia, proprio
quell’anno decide di intraprendere la carriera arbitrale, proprio il 30 giugno,
venti giorni dopo aver conquistato il trofeo. Ha ventidue anni, e diventa
arbitra il 30 luglio di quello stesso anno. Oggi arbitra in tutta Italia
partite di calcio a cinque della Lega di Serie A, nel fine settimana. Da lunedì
a venerdì, invece, svolge la professione di avvocato. La sua esperienza l’ha
condotta a difendere legalmente donne vittime di violenze, ma, al contempo, a
difendere anche presunti colpevoli di tali atti. Pur rimanendo
professionalmente neutra, nei casi più gravi, quali quelli sfociati in
omicidio, Carlotta ha provato molta empatia con le vittime.
Il
suo motto: non bisogna giudicare i fatti, ma applicare le regole.
Le
parole chiave del suo percorso: sacrificio, forza in sé stessi, andare oltre
gli stereotipi di genere
Malgorani
Francesca, ingegnere 3A»
Francesca
intraprende gli studi in ingegneria dopo aver frequentato il liceo artistico.
Lavora nei cantieri edili, un ambiente prevalentemente maschile (finora, lei
non ha mai incontrato un muratore donna, e poche sono le sue colleghe che
lavorano nei cantieri). Spesso sente commenti o battute sul fatto che una donna
si presenti in cantiere, e viene chiamata “signora”, anziché per titolo, ma,
dopo averla conosciuta, tutti si ritengono soddisfatti del suo operato, rapido
ed efficace nel risolvere problemi.
La sua famiglia l’ha sempre appoggiata ed è
fiera di lei; la carriera è andata di pari passo con la costruzione di una
famiglia. Pur vivendo in un clima superficialmente discriminatorio nei
confronti delle donne, non ha mai subito direttamente gravi atti. Tuttavia,
racconta di una collega arrivata a scrivere sul CV di non potere avere figli,
cosa inquietante e indicativa del clima ancora vigente in alcuni settori
lavorativi.
Le
parole chiave del suo percorso: studio e determinazione.
Pietrobon
Beatrice, medico chirurgo specialista in pediatria
3E
Cresce
in una famiglia veneta tradizionale, con il padre lavoratore e la madre
casalinga. È quest’ultima a spingerla verso lo studio, dicendole che, in
futuro, potrà dedicarsi a hobby come il cucito, ma che è la scuola ciò che
conta di più. Perciò, desidera fare l’insegnante quando frequenta la scuola
primaria, la professoressa durante la scuola secondaria. Inoltre, da sempre
desidera essere madre e creare un famiglia.
Si iscrive al liceo classico e ivi fa la
conoscenza di colei che sarà la sua mentore, la professoressa di biologia.
Grazie ai suoi consigli si indirizza verso il mondo dello studio scientifico e,
in particolare, della medicina. A diciotto anni ha un fidanzato che frequenta
la Facoltà di Farmacia. Ciò la fa propendere per lo studio della medesima
materia, ma suo padre le consiglia di non abbandonare il sogno di diventare
medico, perché «la strada più difficile è quella da seguire; quella facile si è
sempre pronti a intraprenderli in seguito». Si laurea in medicina e lavora per
diverso tempo in ospedale, nel reparto di neonatologia. Nel frattempo, si sposa
(con un medico) e ha tre figli. Sceglie quindi di lavorare in uno studio
privato come pediatra. Il suo ambiente di lavoro era ed è prevalentemente
femminile, non ha quindi mai riscontrato discriminazioni di genere nel suo
contesto professionale.
È fiera di ciò che ha ottenuto, e ha salvato
vite di bambini che accusavano problemi di varia natura, una volta nati. La
profonda empatia che la lega ai pazienti si concretizza in percorsi che attua
insieme alle famiglie di bambini affetti da patologie rare e gravi, i quali, a
volte, non possono guarire.
Il
suo motto: La strada più difficile è quella da seguire; quella facile si è
sempre pronti a intraprenderli in seguito.
Le
parole chiave del suo percorso: empatia e ispirazione.
Tresca Monica,
commissaria di polizia locale
3D
Monica,
52 anni (tiene a precisare la sua età sin da subito), è donna e madre, prima
ancora di essere un commissario di polizia locale (tiene a precisare anche
questo). Il suo percorso le ha insegnato che, nel mondo delle forze dell’ordine
– e non solo – l’essere donna rappresenta una qualità aggiuntiva, donando una
diversa visione su ciò che la circonda e una prospettiva non immediatamente
percepibile da un uomo in alcuni casi specifici.
Sin dall’età di otto anni, quando si oppose
a una ragazzina più grande di lei, Monica era interessata alle regole e al loro
rispetto. Giocava a calcio, unica ragazza tra i maschi, ed era sempre scelta
come prima giocatrice nel formare le squadre. Il medico, però, le impedisce di
partecipare a una convocazione da parte della Juventus, adducendo a pretesto un
presunto problema a una gamba. La madre, poco dopo, la iscrive a ginnastica
artistica. Tuttavia, l’ambiente tradizionale nel quale cresce non impedisce a
Monica di perseguire il suo obiettivo: lavorare in un ambito simile a quello
delle ispettrici che, un giorno, si sono presentate nella sua scuola a indagare
sulla scomparsa di un alunno. Desidera anche studiare in Università, Monica, ma
la famiglia preferisce indirizzarla verso un lavoro. E così, lei lavora come
operaia, finanzia i suoi studi universitari e, al contempo, si iscrive a vari
concorsi, superando – sempre senza l’incoraggiamento della famiglia – quello
per divenire vigile urbano.
L’ambiente nel quale si trova a lavorare
Monica è fortemente maschilista. I colleghi spesso sono sospettosi, alcuni si
divertono ad assegnarle zone sconfortevoli per dirigere il traffico; la divisa,
poi, prevede una gonna che, al passare dei mezzi di trasporto di una certa
dimensione, viene sollevata. Seppur alle volte turbata da comportamenti
decisamente molesti, anche a livello fisico, Monica procede nel suo cammino e,
esame dopo esame, giunge a sostenere la prova per divenire ufficiale. Una volta raggiunto il grado, non ricorda
nemmeno i comportamenti di alcuni colleghi, ora sottoposti, ma costoro temono
che lei possa rivalersi. Questo indica ciò che Monica ha compreso da tempo: il
problema di quegli atteggiamenti, e dei pensieri che li legittimano, riguarda
in primo luogo chi li tiene.
Oggi Monica è sposata e ha tre figli. Il
rispetto è la sua regola di vita.
Il
suo motto: La divisa rappresenta responsabilità, non potere
Le
parole chiave del suo percorso: rispetto e responsabilità
Lorenzo
Tintori
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